Lo scopo della vita è Divertirsi (ovvero perché Lucignolo è finito nel libro sbagliato)

Qui viene il bello. Spesso la parola “divertimento” viene associata a qualcosa di frivolo, facile, perfino illegale o dannoso per la salute (fisica e/o mentale) propria o altrui. La solita stronzata di Lucignolo che non combina ‘na mazza dalla mattina al vespro. Lucignolo la sapeva lunga, ma è capitato nel libro sbagliato. Invece di Collodi, avrebbe fatto miglior fine e goduto di miglior fama in un’opera di Epicuro, tanto per citare un sommo.
Signori e signore della giuria, divertirsi è la cosa più complessa al mondo. Non c’è nulla di più difficile dello scoprire ciò che realmente si vuole, e limitarsi a fare quello, senza eccedere in altro. Ma questo non ve lo dice un misero blogger, bensì un solido filosofo vissuto ben duemila e trecento anni fa. Perciò, senza timore di cadere in una palese fallacia ad verecundiam, in quanto condivido appieno il suo pensiero, vediamo quindi come la pensava costui.
Tanto per cominciare, rispetto
ai suoi “colleghi”, Epicuro aveva fondato una scuola – ben diversa dalla
cosiddetta “scuola” dei giorni nostri – aperta a tutti, comprese donne e
schiavi: niente male per un nonnetto che si porta duemilatrecento anni sul
groppone, e non aveva social network dove vantarsi quanto cazzo stava avanti
rispetto agli altri poveri influencer del globo conosciuto (che allora era
sensibilmente più ristretto di quello odierno). Vi rendete conto? Duemilatrecento
anni prima che qualcuno nascesse dentro un presepe, quando l’evoluzione umana
era ancora all’anno zero, quando ancora non nascevano i paladini
del gender fluid, i terrapiattisti e altri insigni movimenti di pensiero
quantistico, un tizio decise di aprire una scuola dove accogliere (aggratis!)
donne e schiavi.
Inutile dire che per
queste ragioni è diventato più famoso del più famosissimo Youtuber dei nostri
giorni. Ed altrettanto pleonastico sarebbe raccontarvi come questo suo atteggiamento
progressista, unito alle sue idee ancora più provocatorie e fuori moda, abbia fatto vorticare gli zebedei ai guru delle altre scuole più serie e
istituzionalizzate, ovvero stoici, platonici e aristotelici, che pure erano
delle brave persone.
Per farvela breve, Epicuro fu reo di aver predicato la
nobiltà del sano divertimento. Pertanto, fu giudicato un godereccio, goloso,
lussurioso, e altre cose brutte. In realtà, il nostro prode pioniere, ebbe
l’acume di intravedere nel piacere la più sobria delle umane esperienze.
Epicuro sosteneva infatti che “nulla basta a chi il poco non basta”.
Sbagliato. Epicuro
non ha mai parlato di “accontentarsi”, tutto l’opposto. Secondo la mia visione,
nella parola “accontentarsi” è insito un connotato negativo, o comunque
estraneo all’insegnamento epicureo. Bisogna calibrare sempre con molta
attenzione le parole usate perché, come diceva Gorgia, “la parola è grande
sovrano”, e Gorgia la sapeva lunga. Pensiamo ad esempio alla parola
“tolletanza”. A voi piace? A me no. C’è una bella differenza tra le parole
“tolleranza” e “comprensione”: “tollerare”
qualcuno significa sostanzialmente “sopportarlo di malavoglia”, il che è ben
diverso dall’accorciare le distanze per provare davvero a capire l’altro e
imparare come trattarlo.
Stessa cosa accade all’incirca col discorso
dell’accontentarsi. Nella parola “accontentarsi” è celato un pericoloso rimando
alla concezione più becera del verbo “rinunciare”.
Qui nascono almeno un paio
di considerazioni:
1) Prima di rinunciare a qualcosa dovrei essere certo del fatto che la cosa a cui sto rinunciando fosse in effetti ciò che desideravo, il che è tutt’altro che semplice
2) Lo stesso Epicuro ha certamente sperimento molte delle attività che successivamente ha consigliato di non perseguire, o comunque di non portare agli estremi.
Dalla prima considerazione, la parola
“rinunciare” (che, come abbiamo detto, è senza dubbio compagna stretta del
termine “accontentarsi”) esce già con le ossa rotte, poiché rinunciare a
qualcosa che desideravo realmente è insensato (salvo esservi costretto dalla
legge o da altri strumenti coercitivi), mentre se non la desideravo realmente
allora non è una rinuncia. Ciò si riallaccia alla seconda considerazione,
poiché la strada per rinunciare a qualcosa passa spesso per l’averla prima
conosciuta in maniera più o meno approfondita: solo provando a derubare un
altro essere umano, potrò capire se il furto è qualcosa che davvero amo o se
invece finirà per portarmi solo sconforto.
Certo, alcune persone
continuerebbero a rubare imperterrite, e per tali ragioni si è reso necessario
stabilire delle leggi e degli strumenti di deterrenza (multe, prigionia): in
tal caso, compito di una società sana sarebbe semplicemente confinare i ladri
in un luogo dove non possano nuocere, con lo scopo precipuo di fargli capire che
il loro atteggiamento, presto o tardi, si sarebbe ritorto contro di loro, sotto
diversi profili (il che però implicherebbe che i governanti fossero i primi a
non rubare e a non commettere ingiustizie e furberie un giorno dietro l’altro).
Dunque, lo scopo finale, ancorché utopistico, sarebbe sempre quello: insegnare
alle persone a riconoscere i propri veri desideri, che in ultima istanza sono
rivolti al bene (ringrazio Platone per avermi dato ragione in questo). L’uomo è
infatti per sua natura portato a stimare il bene come “qualcosa” di migliore
rispetto al “male”, o sbaglio?
Alcuni filosofi hanno perfino stabilito che il
male in sé non esiste, privandolo quindi di una reale consistenza ontologica, dal momento che esso costituirebbe solo una sorta di
imperfezione, di malattia che affligge il bene fin dalla notte dei tempi.
Sembra però che il bene abbia sempre la meglio: lo dimostra il fatto che se il
male finisse infine per fagocitare totalmente il bene, non avrebbe più
un’entità su cui esercitare la sua attività parassitica. Insomma: fine della
ciccia per il male.
Da questo punto di vista, il male sarebbe un po’ come il
Covid o un qualsiasi altro virus: cerca di replicarsi e procrastinare così la sua esistenza, ma
così facendo rischia sempre di andarci troppo pesante e di cucire un bel
cappotto di legno per il suo stesso ospite. Dunque, il male fa il male, c’è
poco da fare: esercita il suo ruolo, cercando di farlo così bene da non
mangiare mai l’ultima fetta del bene, perché questa sarebbe la sua stessa
condanna.
Molti obietteranno che comunque il male piace molto all’uomo:
Golding, celebre autore de Il signore delle mosche, credeva che il male fosse
insito nell’uomo, a prescindere dai susseguenti condizionamenti sociali. Ne era
così convinto che coniò la celebre espressione: l’uomo fa il male come le api
producono il miele. Ma sarà davvero così? Molti sociologi, economi e filosofi
se le sono date di santa ragione per porre la parola fine su queste faccende
(che includono altra robetta semplice, tipo etica e libero arbitrio), e
stabilire una volta per tutte che razza di animale sia l’uomo, ma la Verità
rimane sempre il tassello mancante.
D’altronde, è anche vero Kant intuì che
l’uomo è ossessionato da domande che non riesce ad ignorare, ma a cui non riesce
a dare risposta, perciò, per quanto mi riguarda, preferisco trincerarmi dietro
il Bene, con la benedizione di qualche savio sognatore come Platone e
Sant’Agostino. Che poi, non vorrei insistere, ma fin da quando giocavate col
Didò (esiste ancora?) i vostri genitori v’hanno stalkerato le orecchie
rammentandovi di “fare i buoni” o di “fare i cattivi”? Toh, prendi e porta a
casa, Mr. Golding, e goditi le tue mosche.

Ecco, ci
arriviamo. Finora ho cercato solo di
evidenziare quanto sfigato sia il termine “accontentarsi”. Riepilogo:
accontentarsi fa spesso scopa con “rinunciare”, ma l’atto di rinuncia non è mai
desiderabile, poiché non ha senso privarsi di ciò che si desidera veramente (o
peggio ancora, di ciò che non si è mai minimamente conosciuto e sperimentato),
che in ultima istanza non può che essere il nostro bene. Certo, quando si vive
in una società, il discorso cambia. Il fior fiore dei sociologi si è
scervellato nel cercare di capire se il bene del singolo possa entro certi
limiti essere immolato al bene della società, o viceversa, il che rende tutto
più complesso (ne parleremo in post appositi, non temete). Ma cerchiamo ora di
limitare il campo al nostro orticello, alle nostre passioni, ai nostri
obiettivi più intimi, insomma a tutto ciò che non coinvolga in maniera
determinante la società. Da questo punto di vista, troveremo che l’insegnamento
di Epicuro ha ben poco da sparire con quell’immonda sbobba per bigotti chiamata
“accontentarsi”.
In primis, Epicuro raccomandava ai suoi uditori di non
eccedere nelle emozioni, e di ricercare quindi la serenità più che la gioia
intensa. Tali stati di posatezza sono indubbiamente soggettivi, ma entro certi
estremi pressoché tutti gli uomini condividono alcuni aspetti, vista
l’intrinseca natura stabilita da colui che ci ha progettati: la nostra
temperatura ideale è venti gradi, troppo sole ci ustiona, troppi social ci
rendono intellettualmente eunuchi, il pasto ideale deve contenere certi
elementi e in certe quantità, e così via. In ogni frangente, eccedere da un
lato o dall’altro ci porterebbe disagi più o meno gravi. A nessuno piace stare
a digiuno per una settimana, né ingurgitare a forza mezzo chilo di gnocchi.
Ebbene, allo stesso modo potremmo affermare che alcune esperienze risultano
particolarmente idonee a infondere serenità nell’uomo comune: secondo Epicuro,
tali esperienze sono appunto quelle più semplici, come ad esempio una buona
conversazione con gli amici, un pasto moderato, o una semplice passeggiata in
un bosco. Le emozioni più intense, invece, potrebbero minare la tranquillità, e
dunque la serenità di un individuo. Come vedete, nulla di tutto ciò attiene al
mero e triste “accontentarsi”.Scusa fratè, me
stai a dì che un giro sulle montagne russe all’Eur è na cosa da evità?
L’esempio delle
montagne russe calza a pennello. Ricordiamoci una cosa: se c’è una legge che
governa tutto in questo mondo, quella legge è l’equilibrio. In linea di
massima, quanto più è intensa l’emozione ricercata, tanto maggiori saranno il
lavoro, lo stress e i rischi (fisici, psicologici e/o finanziari) per
ottenerla. Quanto più è ampia e intensa è la fonte di luce, tanto più ampia e
intensa sarà l’ombra. Non si scappa, signori. Con questo non condanno
l’ambizione, lungi da me, ma spezzo una dozzina di lance a favore della calma e
della morigeratezza.
Apologia dell'ozio
Difendiamo l’ozio, una volta tanto, quando ciò non consista nel seguire l’esempio del Lucignolo che butta la sua vita tra selfie, fake news e stronzate varie pescate - con arte sopraffina - dal social di turno. Molti, affetti da miopi sindromi dogmatiche, dimenticano il FATTO che Lucignolo non debba necessariamente essere quel pusillanime negletto plasmato da Collodi. Poniamo che Lucignolo non ami timbrare il cartellino, che non abbia alcun bisogno di acquistare appartamento in classe A+ con mutuo al 5%, e che non desideri ingurgitare una vagonata di libri per laurearsi e diventare qualcuno che conta (commercialista?). Ebbene, non credo che l’unica alternativa di una siffatta creatura sia quella finire di nella bolgia dei falliti da mettere in punizione dietro la lavagna. Potrebbe invece imparare a coltivare il suo tempo in maniera più sana e intelligente. Come? Ad esempio, osservando gli alberi e i sassi. Bernardo da Chiaravalle ne era convinto almeno quanto me: “Troverai più nei boschi che nei libri. Gli alberi e le rocce ti insegneranno cose che nessun maestro ti dirà”. E se lo diceva uno che di libri ne aveva ingurgitati parecchi, allora da zero a dieci potremmo credergli almeno otto.Aggiungo che, secondo una mia personale visione, l’ambizione è una lama senza impugnatura: se la stringete
troppo vi potete tagliare. Per cui credo che la calma e la serenità debbano
costituire il menu base nella vita di ogni persona, come appunto suggeriva
Epicuro. Sulla base di ciò, molti intravedono nell’insegnamento epicureo un
rimando alla filosofia orientali, o comunque un invito alla pura atarassia. Io
ho sempre mantenuto un’interpretazione differente, anche se forse, come spesso
capita in questi casi, è solo una questione di semantica.
Personalmente, ho
ricevuto le emozioni più autentiche dalle esperienze più “banali”: escursioni,
libri, film…e soprattutto, dall’aver condiviso tali esperienze con altri.
Bisogna infatti distinguere tra l’autenticità di un’emozione e la sua
intensità. Ad esempio, non me ne vogliano i romanticoni, ma io sono convinto
che l’innamoramento possa essere un’emozione pericolosa, in quanto spesso poco
autentica: nella stragrande maggioranza dei casi essa è alimentata da lacune e traumi del nostro passato, oppure dalla semplice
attrazione fisica che svanisce dopo qualche tempo come una sbronza, o ancora da
idealizzazioni del nostro amato che poco hanno a che fare con la sua vera
identità. Sicché accade che molti cosiddetti “amori da favola” finiscano per
scontrarti presto o tardi con la dura realtà, tramutandosi in tutt’altro.
Insomma, non c’è nulla di più impuro della “cotta”. Eppure, per quelle “cotte”
sono crollati imperi e scoppiate guerre. Questo dovrebbe farvi pensare:
l’innamoramento è sì un’emozione intensa, ma non sempre autentica.
Un’emozione
autentica è invece un’immagine a fuoco: la sua nitidezza non mente, lascia
intravedere ogni particolare, non cela complicati pregressi psicologici né pure
velleità di accoppiamento. Da questo punto di
vista, mi pare si possa ben dire che la vera intensità emozionale risieda nella
nitidezza, nella semplicità, non nelle folli burrasche. Per cui, non vedo in
Epicuro un santone ipertricotico chiuso in una caverna a meditare, tutt’altro.
Insomma, non è affatto semplice vivere da Lucignoli evoluti.
Richiede molto impegno, allenamento, autocoscienza. Inutile dire che io sono
ancora ben lontano dall’arrivarci. Sto già smadonnando perché ho una decina di
impegni burocratico/finanziari da risolvere, che una volta risolti non
cambieranno sostanzialmente nulla nella mia vita. Nel tuo caso, invece, se sei
arrivato a leggere fin qui vuol dire che sei già a buon punto lungo la strada
che porta al nobile ozio.
Alla prossima puntata.
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